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  • Cultura
  • Silvia Boscono
  • 29/12/2021

Chi è stata veramente Lydia Tesio?

Quest’anno, dopo la pausa imposta dalla pandemia nel 2020, si è svolta la cerimonia di consegna del Premio “Le Signore dell’ippica” nel salone della Casa dei Cavalieri di Rodi e a pochi giorni dal galà, il 7 novembre all’ippodromo delle Capannelle si è tenuto il Premio Lydia Tesio, la corsa inserita nella giornata del Roma Champions Day.

Ma dopo 19 edizioni, ha ancora senso domandarsi chi fosse Lydia Tesio?

La figura di questa lady dell’ippica per eccellenza, può essere limitata al solo ruolo di “moglie di Federico Tesio”? 

La risposta, per quanto sia indispensabile pensare l’operato di Donna Lydia nella mentalità degli anni in cui visse, è più attuale che mai.

 Nonostante i cambiamenti di costume degli ultimi cinquant'anni, siamo lontani da un’effettiva parità di genere e c’è ancora chi si domanda se ci siano differenze strutturali tra i sessi e se sia indispensabile per una donna dotarsi di una dose aggiuntiva di “aggressività, spavalderia e sicurezza di sé” per riuscire ad affermarsi nella società. Alla luce di questo ho cominciato a domandarmi quale fosse il ruolo di Lydia accanto a Federico; quali i suoi effettivi meriti per l’opera del marito e nelle mie ricerche ho trovato pagine Wikipedia bianche, libri fuori catalogo, o introvabili, e una generale scarsità di fonti. Mi sono mossa in un vuoto bibliografico in cui Lydia Fiori di Serramezzana appariva solo in un gioco di specchi di un rapporto matrimoniale. 

 

 Tutto ciò che riguarda i Tesio sembra immerso nel mito, invece, per capire questa figura femminile e riuscire a scoprire il valore dell’opera di questa famiglia di allevatori, bisogna studiarli oltre la leggenda. Queste figure non potrebbero essere più vive e reali se non nelle parole di Renzo Castelli, scrittore, giornalista, penna brillante e grandissimo conoscitore del mondo ippico.

Ho avuto la fortuna di riuscire a chiacchierare con lui di Ribot, di sentire ancora vivissimo nelle sue parole il ricordo di quando lo vide prima in un box a Barbaricina poi, nel 1955, vincere a San Rossore. Castelli mi ha raccontato come ancora trent'anni dopo inseguisse quel mito e arrivasse fino nel Kentucky perché quel cavallo là era messaggero di una buona italianità, ancora “indimenticato e indimenticabile”. 

“Che mi dice di Lydia Tesio, invece?” gli ho chiesto ed è proprio da quella domanda, e attraverso le sue parole, grazie ai suoi libri, che il ruolo di questa donna si è delineato in me.

Non sappiamo se Lydia Fiori frequentasse inizialmente l’ippodromo per un interesse reale per i cavalli o solo per occasioni mondane da nobili, in tempi in cui gli ippodromi erano molto più che un luogo dove si correva, ma sappiamo che la passione di Federico la travolse e lei conferì alla sua attività un carattere di aristocratica eleganza che ancora oggi sembra aleggiare su ogni evento del mondo equestre. 

 Castelli in “Ribot. Un campione e la sua epoca” (Pacini editore), ci racconta di questa donna rendendola estremamente concreta: “Lei seguì l’organizzazione dell’allevamento: l'igiene dei cavalli, la loro alimentazione, la scelta dei paddock. (...) Una spartizione di ruoli precisa e inflessibile, un rapporto di collaborazione chiarito fin dall’inizio del loro sodalizio e che resterà granitico,” e immaginiamo anche non facile visto il carattere del marito “bizzoso e polemico, perfezionista e troppo spesso catturato da superstizioni che angustiano la sua compagna.”

 

Il sostegno che Lydia diede al marito non fu solo pratico e morale, ma anche economico quando fondarono prima la scuderia a lui intitolata e favorì poi l’accordo con il Marchese Incisa della Rocchetta nel 1932 da cui nacque la razza “Dormello - Olgiata”. Fece così valere probabilmente le sue doti femminili assecondando le unioni, non solo sentimentali come tra il Marchese e la moglie Clarice, ma diventando mediatrice nei rapporti che il ruolo di Tesio allenatore e proprietario richiedeva.

Lydia, inoltre, fu la memoria storica della scuderia, compilando il “Libro rosso delle fattrici” fino al 1942: il registro genealogico dell’allevamento che, ancora oggi, è conservato nella villa di Dormello.

 

Anche nell’arte non sono rari questi sodalizi, queste unioni affettive proficue. Negli stessi anni in cui Federico Tesio studiava la “formula segreta” per far nascere campioni, così veloci da sembrare in volo lungo la dirittura della pista, Marc Chagall dipingeva cavalli fluttuanti nell’aria e si legava a una donna, Bella Rosenfeld, senza la quale le sue opere non sarebbero state dipinte, le figure disegnate, né i colori stesi. 

Nelle tele di questo artista è centrale l’iconografia del cavallo, persino quando disegnava altri animali: “Ho sempre dipinto cavalli che paiono mucche!” confesserà Chagall. La sua intenzione espressiva, che diventava uno dei suoi nuclei generatori di immagini, era quella di rappresentare questo animale come in un sogno: un simbolismo che non apparteneva a un’iconografia predefinita, ma piuttosto a una sua propria proiezione onirica e di conseguenza, liberamente, anche nostra. Così il cavallo nelle sue opere è simbolo di libertà sociale quando rappresentato in un contesto circense; di una sessualità svincolata dalla morale dell’epoca quando, invece, è cavalcato da una coppia di amanti, sospesi in un cielo blu cobalto; infine più intimamente legato alla sua poetica artistica e a quel suo vocabolario pittorico costruito sulla libertà.

“Ferma il cavallo, non fargli/ mangiare il violino/ strillò la madre di Chagall/ Ma lui / continuò imperterrito/ a dipingere”, scriveva Ferlinghetti, poeta guru della Beat Generation.

Il cavallo per Chagall però non è solo questo: è il simbolo che si trova più spesso nelle raffigurazioni di coppie, abbinato al tema amoroso che rimanda a un’idea di protezione e sostegno reciproco. Quando osserviamo due amanti su un tetto, un cavallino protegge la loro unione con un piccolo ombrello, o tiene uno spicchio di luna a illuminare un abbraccio; altrove, conduce gli innamorati in groppa o, più semplicemente quando raffigurato come animale da tiro, starà alle loro spalle, simboleggiando, forza e tenacia.

 

Eppure, tra le tante opere di Chagall in cui è spesso presente il cavallo con il suo carico simbolico aperto a svariati livelli visivi, quella che più mi aiuta a capire il rapporto tra Lydia e Federico, che, in una struggente simmetria di destini richiama il sodalizio che Chagall ebbe con Bella, il grande amore della sua vita, è un’opera in cui questo animale non è presente. Mi riferisco a “Doppio ritratto con un bicchiere di vino”, del 1919, gli stessi anni in cui i purosangue del “Mago di Dormello” stavano dominando incontrastati tutte le edizioni del Derby del galoppo.

In questo quadro la sposa sorregge sulle spalle l’artista che brinda al loro amore con un bicchiere di vino. Parigi pulsa alle loro spalle e sulla loro testa aleggia l’angelo della felicità.

 Io immagino così Lydia Tesio: una moglie che regge senza sforzo il peso di un uomo come fu Federico, allevatore, politico, genio dell’ippica, ma anche artista, e lo fa con una eleganza aristocratica che le consente, a un tempo, di muovere un ventaglio e tenere una mano guantata sul fianco. Un costruttivo sodalizio amoroso.

Anche quando Federico Tesio morì, Lydia continuò a sostenere l’eredità del marito, delle sue idee e del successo di Ribot, cavallo volante che il suo ideatore non vide mai vincere.

 

 Le polemiche dei giorni nostri sulla necessità di una maggiore spavalderia della donna per poter affermarsi, non avrebbero mai potuto toccare Lydia Tesio che entrò in vita nel mito diventando semplicemente “Donna Lydia” negli ippodromi, senza che la sua riservatezza o eleganza venissero mai meno. 

Come Bella per l’opera di Chagall, Lydia fu consigliera, sostegno morale ed economico.

 

 Dopo 19 edizioni del Premio capisco che la domanda che devo pormi non è più: “Chi era Lydia Tesio?” ma se Federico Tesio sarebbe mai potuto essere l’uomo che è stato senza di lei.

 

 

 

 

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